Il 18 marzo 2025, Mario Draghi ha avuto un’audizione presso le Commissioni riunite del Senato e della Camera in merito al “Rapporto sul futuro della competitività europea”.
Le dichiarazioni rilasciate da Mario Draghi durante l’audizione del 18 marzo 2025 davanti alle Commissioni riunite del Senato e della Camera hanno suscitato sorpresa. L’ex presidente della BCE, da sempre identificato come uno dei custodi dell’ortodossia europea, ha messo in discussione alcuni dei cardini che hanno segnato l’ultimo ventennio di politiche economiche continentali. In particolare, ha ammesso che l’Europa ha puntato troppo sull’export, trascurando la domanda interna, e ha criticato la compressione salariale come strumento di competitività intra-europea.
Parole forti, inaspettate, che potrebbero far pensare a una vera e propria evoluzione del pensiero economico dell’ex premier.
Ma non si può non notare come questa motivazione – la troppa dipendenza europea dall’export e il conseguente surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti – sia proprio la stessa che Donald Trump ha sollevato per giustificare l’introduzione dei dazi contro l’UE. Un’analisi che i media stanno bollando come rozza o populista, ma che oggi trova riscontro nelle parole di uno dei principali architetti dell’eurozona.
Inoltre, questa ammissione suona come una beffa: era evidente da anni che il modello europeo penalizzava la domanda interna.
L’economia non è un fenomeno imprevedibile, non è un terremoto o una calamità naturale. Si fonda su dinamiche matematiche e scientifiche.
Per questo, le parole di Draghi hanno il sapore amaro e irridente della beffa: come se oggi ci si svegliasse all’improvviso da un incubo che in realtà si è contribuito a costruire, mentre chi lo denunciava veniva ridicolizzato.
Un’ammissione che arriva tardi
Durante l’audizione, Draghi ha riconosciuto che:
“Abbiamo compresso i nostri salari anche perché pensavamo che, essendo in competizione con altri Paesi europei, i salari più bassi fossero uno strumento di concorrenza.”
E ancora:
“La contrazione del credito post-2008 ha limitato l’accesso al finanziamento per famiglie e imprese, soffocando la crescita.”
Draghi ha quindi riconosciuto come le politiche di austerità e la competitività basata sui salari abbiano compromesso la capacità dell’Europa di stimolare la domanda interna. Eppure, queste sono proprio le politiche che egli stesso, in qualità di presidente della BCE dal 2011 al 2019, ha legittimato o sostenuto indirettamente, anche laddove ha adottato strumenti espansivi come il quantitative easing.
Un cambio reale o un’operazione strategica?
Più che una sincera autocritica, queste affermazioni sembrano inserirsi in un contesto più ampio: quello della ridefinizione del ruolo dell’Unione Europea in un mondo frammentato. La crisi climatica, la guerra in Ucraina, la nuova corsa tecnologica tra USA e Cina, e soprattutto il ritorno delle politiche industriali protezionistiche (si pensi ai dazi promessi da Trump), impongono una revisione dei dogmi economici. E Draghi, da uomo di sistema, non può che accompagnare questa transizione.
Nel suo discorso, infatti, ha avanzato proposte come:
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la creazione di un debito comune europeo,
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una politica industriale coordinata,
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una difesa europea unificata,
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e il superamento della dipendenza dall’export, per stimolare investimenti e coesione interna.
Non si tratta, tuttavia, di una rottura col passato. Piuttosto, di un adattamento strategico per garantire la sopravvivenza di un’architettura europea messa sotto pressione dalla realtà. In questo senso, Draghi continua a svolgere il ruolo che gli è più congeniale: non quello del riformatore, ma del garante della stabilità del sistema, pronto a correggere la rotta quando le condizioni esterne lo impongono.
La preparazione al progetto ReArm Europe
Ecco allora che la conversione di Draghi può essere letta come funzionale alla costruzione del nuovo impianto europeo, in cui l’accentramento delle competenze su difesa, politica industriale e bilancio diventi realtà. L’idea di “sovranità strategica europea” – oggi rilanciata sotto l’etichetta di RIAR Europe – richiede infatti una maggiore legittimazione interna.
Non si può costruire un’Unione armata e centralizzata se non si promette in cambio più equità, più investimenti pubblici, più benessere per i cittadini.
Il passaggio da “austerità e rigore” a “investimenti e coesione” non è, dunque, un abbandono dei principi cardine dell’Unione, ma il loro rimpasto tattico.
Serve a costruire il consenso per la prossima fase: quella in cui l’Europa, sotto l’egida di Draghi o di chi ne erediterà la visione, si presenterà come attore autonomo, ma sempre più verticistico e post-democratico.
Il rischio di un nuovo centralismo europeo
Il pericolo, in questa fase, è duplice.
Da un lato, la legittimità popolare delle nuove scelte sarà debole: il cambio di linea non nasce da un confronto democratico, ma da un adeguamento tecnico alle nuove condizioni globali.
Dall’altro, la stessa ammissione dei fallimenti passati non porta con sé alcuna assunzione di responsabilità concreta. Nessuno, tra i promotori delle vecchie politiche, ha pagato il prezzo degli errori.
Conclusione: Draghi come sintomo, non come soluzione
L’evoluzione del pensiero di Draghi, se esiste, non va letta come un risveglio tardivo, ma come una raffinata operazione politica.
Essa serve a costruire consenso attorno al nuovo corso europeo, che prevede meno Stato-nazione e più governance sovranazionale, sotto il segno di un realismo economico che finalmente riconosce l’insostenibilità di una crescita fondata solo sull’export e sul rigore fiscale.
Ma attenzione: senza un vero ripensamento delle modalità decisionali europee e senza una restituzione di potere agli elettori, anche questa nuova fase rischia di essere una trasformazione apparente.
Una nuova cornice per lo stesso quadro: l’Europa tecnocratica che si reinventa, ma non si mette mai davvero in discussione.