Il Decreto Legge 1660: chi lo ha voluto e perché
Il Decreto Legge 1660, noto come “Decreto Sicurezza”, è un provvedimento promosso dal Governo Meloni e attualmente in discussione in Parlamento. Sebbene la proposta formale provenga dal Ministero dell’Interno guidato da Matteo Piantedosi, la vera regia politica dell’operazione è chiaramente riconducibile alla Lega e, in particolare, al suo leader Matteo Salvini.
Fin dalle prime battute, Salvini ha rivendicato la paternità politica del decreto, presentandolo come uno strumento necessario per rafforzare la sicurezza interna e il controllo dell’immigrazione. Il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, anch’egli leghista, lo ha dichiarato senza giri di parole: “Il decreto sicurezza è della Lega e di Salvini”. Non a caso, Salvini ha più volte espresso pubblicamente la propria soddisfazione per l’approvazione alla Camera, spingendo ora per una rapida approvazione anche al Senato — non senza secondi fini, visto l’imminente congresso del suo partito.
Obiettivi dichiarati del decreto
Secondo la narrazione del governo, il DL 1660 avrebbe tre obiettivi principali:
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Rafforzare la sicurezza all’interno delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti;
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Semplificare le procedure per la realizzazione di tali strutture;
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Contrastare la criminalità e le rivolte nei centri di accoglienza.
Tuttavia, le misure contenute nel testo vanno ben oltre questi intenti e toccano ambiti molto più ampi, con ricadute potenzialmente gravi sui diritti e le libertà fondamentali.
Oltre la propaganda: un testo da guardare con attenzione
Su questo decreto è necessario spendere qualche parola in più. Alcuni articoli del cosiddetto Decreto Sicurezza possono apparire ragionevoli. Altri, però, risultano decisamente preoccupanti — soprattutto se applicati con discrezionalità, come è lecito temere, viste le tendenze attuali nella gestione dei diritti.
Del resto, non possiamo più permetterci di dare per scontato che lo Stato agisca sempre nel rispetto pieno delle garanzie costituzionali. L’esperienza del Covid ci ha mostrato che, anche in un ordinamento formalmente garantista, possono essere adottate misure sproporzionate e invasive, spesso senza un adeguato controllo democratico.
E non si tratta di un’eccezione isolata. In tutta Europa, assistiamo a una progressiva restrizione degli spazi di libertà politica, critica e di espressione, in nome della sicurezza, dell’emergenza o della stabilità sociale. È in questo contesto che va letto il DL1660 — e proprio per questo merita attenzione, cautela e un esame critico rigoroso.
Il provvedimento in questione, identificato come DL 1660, affronta temi complessi e delicati che richiederebbero un confronto approfondito in sede parlamentare. Invece, il governo ha scelto la via del decreto-legge, giustificandolo con l’urgenza. Ma dov’è l’urgenza, se si parla di fenomeni — come l’occupazione di immobili, la disciplina del Daspo urbano o l’uso delle bodycam — che non sono certo emersi ieri?
È questa la prima, grande criticità: l’abuso di uno strumento eccezionale (quale il decreto-legge) per affrontare questioni strutturali e non emergenziali. Una scelta che svuota di fatto il ruolo del Parlamento, trasformando un dibattito che dovrebbe essere democratico in una forzatura politica.
Un’occasione persa che rischia di diventare un boomerang
La cosa peggiore è che, in mezzo a vere urgenze sociali ed economiche, si presenta un decreto “minestrone”, raffazzonato, che rischia di diventare solo terreno di scontro ideologico tra destra e sinistra. E questo, purtroppo, sta già accadendo.
Il pericolo più concreto è che la discussione parlamentare su questo provvedimento degeneri in uno scontro sterile tra blocchi politici, ciascuno concentrato esclusivamente sulla difesa dei propri totem ideologici: da una parte la destra che parla di ordine e sicurezza come se fossero dogmi assoluti, dall’altra una sinistra che, ad esempio, si concentra unicamente sulla difesa dei diritti dei migranti (e già parla di neofascismo).
In questo modo si crea una polarizzazione insanabile, che produce solo paralisi e propaganda. E nel frattempo, i problemi veri – quelli che colpiscono la vita concreta di milioni di italiani – vengono oscurati. È una dinamica pericolosa, che trasforma un confronto necessario in una guerra di trincea, con il rischio di perdere di vista le priorità reali del Paese.
I profili costituzionali più critici
1. Una falsa urgenza
Molte delle misure contenute nel decreto non rispondono a un’esigenza immediata: non siamo di fronte a una minaccia concreta e improvvisa. Parliamo invece di problemi annosi, da affrontare con serietà e visione, non con la scorciatoia del decreto-legge.
La Costituzione (art. 77) consente il ricorso ai decreti solo in “casi straordinari di necessità e urgenza”: non è questo il caso. Siamo, al contrario, di fronte a un abuso dello strumento emergenziale, che crea un pericoloso precedente istituzionale.
2. Libertà di manifestazione a rischio
Articoli 17 e 21 della Costituzione tutelano il diritto di riunione pacifica e la libertà di espressione. Eppure, il DDLL 1660:
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Trasforma il blocco stradale da illecito amministrativo a reato penale, con pene fino a sei anni se compiuto da più persone durante manifestazioni;
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Introduce la punibilità della resistenza passiva durante operazioni di polizia.
Queste misure, se applicate con discrezionalità, rischiano di scoraggiare il dissenso pacifico, configurandosi come strumenti repressivi piuttosto che di tutela dell’ordine pubblico.
3. Presunzione di innocenza e diritto alla difesa
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Il Daspo urbano potrà essere applicato anche a chi è stato solo denunciato o condannato in primo grado. Questo compromette il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva (art. 27).
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L’aumento delle pene per incitamento alla disobbedienza alle leggi rischia di colpire anche opinioni politiche espresse in ambienti ristretti, come le carceri. Ciò comporta una limitazione indiretta della libertà di espressione, difficilmente giustificabile.
4. Una giustizia sbilanciata
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Il decreto prevede che lo Stato si faccia carico delle spese legali degli agenti indagati per abusi durante il servizio, fino a 10.000 euro per fase del procedimento. Una misura discutibile, soprattutto se non accompagnata da alcuna sospensione cautelativa, che può incentivare una cultura di impunità.
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Le nuove disposizioni sul regime detentivo per donne incinte o madri introducono deroghe alla possibilità di rinvio della pena, in caso di “pericolo”. Questo potrebbe entrare in conflitto con l’art. 27 della Costituzione e con la giurisprudenza che tutela la maternità e l’interesse del minore.
5. Rischio di repressione selettiva
La combinazione di nuove fattispecie penali — come resistenza passiva, occupazione arbitraria, incitamento alla disobbedienza — in un impianto normativo rigido può aprire la strada a una repressione selettiva: verso oppositori politici, attivisti sociali o gruppi marginalizzati.
Tutto questo contrasta con il principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2) e con la funzione garantista del diritto penale, che dovrebbe rimanere l’extrema ratio, non uno strumento di gestione del dissenso.
Conclusione
Il DDLL 1660 è un testo mal concepito, sbilanciato e strumentalizzato. Pur affrontando problemi reali, lo fa con un approccio frettoloso, ideologico e propagandistico, privo del rispetto che si deve a una democrazia costituzionale matura.
Ancor più grave è il fatto che stia diventando il pretesto per uno scontro politico sterile tra opposti schieramenti, dove ciascuno si trincera dietro i propri simboli identitari — la destra con la sicurezza, la sinistra con i diritti (a volte pesudo-diritti) — mentre i veri problemi strutturali del Paese, economici, sociali e istituzionali, restano sullo sfondo.
La questione sicurezza, è vero, è oggi una delle più sentite, anche perché la percezione del rischio è forte e spesso fondata. Tuttavia, questa percezione nasce anche da cause più profonde, che affondano le radici in scelte sbagliate di lungo periodo: dalla cattiva gestione dell’immigrazione alla disattenzione verso le periferie, dalla precarietà del lavoro alla fragilità delle politiche internazionali.
Serve più serietà, più confronto parlamentare e meno propaganda. Perché i diritti fondamentali non si comprimono in nome della sicurezza — si tutelano insieme alla sicurezza, non contro di essa.