di Vietato Parlare
Come una teoria per ridurre il rischio ha trasformato la finanza in un motore di concentrazione del potere
Nel 1990, Harry Markowitz ricevette il Premio Nobel per l’Economia per aver formulato la cosiddetta Modern Portfolio Theory, una teoria che aveva iniziato a prendere forma nel 1952. Secondo questo modello, un portafoglio finanziario è tanto più efficiente quanto meglio combina rendimento e rischio, inteso come deviazione standard dei rendimenti attesi. L’idea di fondo era semplice e potente: diversificare per minimizzare la volatilità e ottimizzare il rendimento. La finanza moderna trovava così una base matematica e razionale, in grado di guidare le scelte degli investitori con apparente neutralità.
Tuttavia, ciò che era stato pensato come uno strumento di efficienza e prudenza si è rivelato, nel tempo, l’architrave di un meccanismo ben più ampio. La teoria di Markowitz ha infatti favorito una trasformazione profonda dei mercati: da strumenti al servizio dell’economia reale, essi sono diventati il centro stesso dell’economia, con logiche autonome e autoalimentanti. In altre parole, è nata una finanza che non risponde più a bisogni produttivi o sociali, ma esclusivamente a criteri matematici di ottimizzazione del capitale.
Il successo di questa impostazione ha avuto come effetto collaterale una crescente concentrazione della ricchezza e del potere. La capacità di applicare efficacemente la teoria del portafoglio è infatti limitata a chi dispone di strumenti complessi, accesso a dati storici dettagliati, e potenza di calcolo. Solo grandi istituzioni finanziarie, fondi sovrani e investitori professionali sono in grado di operare secondo i criteri della MPT. Questo ha generato una dinamica cumulativa: chi possiede più risorse riesce a ridurre il rischio meglio degli altri, attira ulteriori capitali, consolida il proprio dominio sui mercati.
Oggi, pochi grandi attori gestiscono una quota impressionante del capitale globale. BlackRock, Vanguard e State Street, ad esempio, detengono partecipazioni rilevanti in migliaia di aziende quotate e possono, di fatto, influenzare le politiche industriali, ambientali e occupazionali dei principali colossi mondiali. Questa centralizzazione di potere economico non trova precedenti nella storia: non solo perché riguarda volumi di capitale senza eguali, ma anche perché si esercita in modo opaco e tecnocratico, privo di una vera legittimazione democratica.
Accanto alla concentrazione della ricchezza, si è affermata una cultura della finanza che è cieca al bene comune. La Modern Portfolio Theory non tiene conto dell’impatto sociale o ambientale degli investimenti. Conta solo il rendimento atteso e il rischio misurabile. Tutto il resto è esterno al modello. In questa logica, è irrilevante se un investimento causa disoccupazione, destabilizza economie locali, o promuove pratiche speculative: se migliora il profilo rischio-rendimento del portafoglio, è considerato razionale.
L’effetto è devastante. Aziende vengono ristrutturate, fuse o liquidate sulla base di valutazioni puramente quantitative. Il lavoro umano, le comunità, i territori diventano variabili trascurabili. La disuguaglianza si accentua non solo in termini di reddito, ma soprattutto in termini di esposizione al rischio: i grandi gestori riescono a proteggersi e a diversificare, mentre i piccoli risparmiatori, i lavoratori e gli Stati restano esposti alle fluttuazioni dei mercati, spesso senza strumenti adeguati.
A peggiorare le cose è l’effetto culturale della teoria. La MPT ha contribuito a diffondere un approccio in cui solo ciò che è misurabile conta, e solo ciò che è efficiente ha valore. Questo ha progressivamente eroso la capacità della politica di orientare l’economia verso fini collettivi. I governi si adeguano ai mercati, temono la fuga dei capitali, adottano riforme che rassicurino le agenzie di rating piuttosto che rispondere ai bisogni dei cittadini. La politica economica diventa una funzione derivata delle aspettative finanziarie.
In definitiva, la teoria di Markowitz è diventata, nei fatti, un’ideologia tecnocratica. Essa ha legittimato l’idea che la gestione del rischio e la massimizzazione del rendimento siano gli unici criteri razionali per allocare le risorse. Ma questa visione riduzionista ha favorito una forma di dominio che non ha bisogno di imposizione violenta: basta un algoritmo, un rating, un modello previsionale per orientare decisioni che coinvolgono milioni di persone. Il risultato è un mondo in cui la ricchezza si concentra come mai prima, e in cui la maggioranza della popolazione subisce passivamente le conseguenze di scelte effettuate in nome della neutralità tecnica.
Harry Markowitz non ha voluto tutto questo. Ma la sua teoria, pensata per migliorare la gestione dei portafogli, è diventata l’ossatura di un sistema che ha prodotto uno squilibrio strutturale. La matematica del rischio ha finito per legittimare il rischio più grande: la perdita del controllo umano sull’economia. La vera sfida, oggi, è restituire alla finanza una funzione subordinata all’etica, alla politica e al bene comune. Solo così è possibile pensare a un futuro più giusto e sostenibile.