Criptomonete, Debito, Oro, Dazi: La Svolta di Trump contro il Globalismo Monetario

C’è chi lo descrive come imprevedibile, irrazionale, perfino pericoloso. Eppure, a guardare con attenzione la strategia economica di Donald Trump – in particolare la politica dei dazi e la gestione della tensione finanziaria – emerge un disegno ben più lucido e razionale di quanto la narrazione dominante voglia far credere. Trump non sta improvvisando: sta attuando un piano per rilanciare l’economia americana, ridurre il peso del debito pubblico, colpire al cuore il potere speculativo e smantellare l’architettura globalista che, per decenni, ha governato il mondo occidentale arricchendo pochi a spese di molti.

Un attacco sistemico all’oligarchia finanziaria

La mossa di Trump rappresenta, forse per la prima volta dopo decenni, un vero attacco frontale all’oligarchia finanziaria che ha imposto la propria agenda sopra le nazioni. Questo potere non si manifesta solo nelle borse o nei consigli di amministrazione: ha occupato la politica, piegato le istituzioni e prodotto emergenze sistemiche – crisi economiche, pandemie, guerre – attraverso le quali ha rafforzato il proprio controllo.

Trump, con i suoi dazi e con la sua politica di “ritorno alla produzione”, sta cercando di scardinare il meccanismo stesso su cui si basa questa egemonia: la finanziarizzazione dell’economia e la delocalizzazione come dogma. In un mondo che premia il capitale mobile e punisce il lavoro stanziale, la sua visione è una rivoluzione: non ideologica, ma reale.

Reindustrializzazione: lavoro e produzione tornano al centro

Una delle colonne portanti del suo piano è la ricostruzione del tessuto industriale americano. Dopo decenni di delocalizzazioni selvagge, che hanno svuotato il Midwest e marginalizzato intere comunità operaie, Trump mira a riportare le fabbriche in patria. I dazi sono lo strumento chiave di questa politica: rendendo più costoso importare, si incentivano le imprese a produrre negli USA.

Non si tratta solo di difendere il “made in USA”, ma di rafforzare l’autonomia economica e strategica del Paese. In un mondo multipolare e sempre più instabile, la sovranità industriale è una garanzia di sicurezza nazionale. E soprattutto, è un modo per restituire dignità al lavoro umano, relegato per troppo tempo al ruolo di variabile sacrificabile.

Tensione finanziaria: guidare il mercato senza piegare la FED

La strategia dei dazi ha anche un effetto collaterale voluto: creare instabilità controllata nei mercati finanziari. La volatilità spinge gli investitori a fuggire dai titoli azionari, considerati rischiosi, per rifugiarsi nei titoli di Stato americani – i Treasury Bond. Questo spostamento di capitali crea una domanda crescente per il debito pubblico americano, contribuendo a mantenere bassi i rendimenti senza che la Federal Reserve debba intervenire abbassando i tassi d’interesse.

È un capolavoro di strategia indiretta: se la FED si oppone, sarà il mercato a piegarsi. In questo modo, si riesce a rifinanziare una porzione gigantesca del debito pubblico – oltre 7 trilioni di dollari nei prossimi sei mesi – senza aumentare i costi per lo Stato.

Inflazione funzionale: la leva per erodere il debito

Contrariamente alla narrazione catastrofista, l’inflazione non è necessariamente un male. Se moderata e gestita, può diventare uno strumento per alleggerire il peso reale del debito. I dazi aumentano i costi delle importazioni, generando una certa inflazione. Ma la contestuale frenata della domanda – causata da una lieve recessione programmata – ne bilancia gli effetti.

Il risultato è un’erosione silenziosa del debito: se il valore reale del denaro diminuisce, anche il valore reale del debito cala. E tutto ciò senza aumentare le tasse o tagliare la spesa sociale. È una via d’uscita morbida dalla crisi del debito, fondata sulla crescita del PIL e sulla svalutazione reale del passivo.

Stablecoin e oro: il ritorno agli asset reali – e il ridimensionamento della FED

Un aspetto meno noto ma centrale della strategia trumpiana riguarda il controllo del sistema monetario. In un contesto dove la finanza è sempre più digitale e globale, Trump propone un cambio di paradigma: ricollegare la moneta a beni reali e al debito sovrano, svincolandola progressivamente dal potere discrezionale delle banche centrali, in primis della Federal Reserve.

Con la proposta di legge nota come “Genius Act”, le stablecoin – cioè le criptovalute il cui valore è ancorato al dollaro – potranno esistere solo se garantite da titoli di Stato americani. Questo significa che per ogni unità di stablecoin emessa, ci dovrà essere un corrispettivo in Treasury bond detenuto come riserva. Non più garanzie opache o fondi privati discutibili: solo debito pubblico USA, reale e monitorabile.

L’effetto è duplice:

  1. Si crea una domanda strutturale per il debito pubblico americano, rafforzando la sua sostenibilità;

  2. Si impone un vincolo reale all’espansione della massa monetaria digitale, evitando inflazione selvaggia o instabilità.

Ma soprattutto, c’è un effetto politico cruciale:
si toglie centralità alla Federal Reserve, che da decenni gestisce la moneta in modo sostanzialmente autonomo, emettendo dollari senza legame con beni reali o decisioni del potere politico.

Trump, invece, vuole che la creazione di moneta torni a dipendere da strumenti concreti e verificabili, come il debito garantito dallo Stato e, in prospettiva, da beni tangibili come l’oro.

Parallelamente, infatti, si sta discutendo la possibilità di emettere nuovi “titoli auriferi”, ovvero strumenti finanziari garantiti da riserve d’oro detenute dal Tesoro. Questo fornirebbe una forma alternativa di accesso alla liquidità, molto più solida e sicura agli occhi dei mercati, soprattutto in un momento in cui il dollaro viene contestato da nuovi blocchi geopolitici e da processi di de-dollarizzazione (come quello promosso dai BRICS).

In un mondo dove la fiducia nelle monete fiat è in crisi, questa strategia rappresenta un ritorno alla realtà, all’economia concreta, alla moneta legata a qualcosa che esiste e che non può essere semplicemente “stampato”.

In sintesi, Trump propone di:

  • limitare il potere della FED come creatrice indipendente di moneta;

  • legare le nuove monete digitali alla finanza pubblica;

  • ripristinare un ancoraggio della moneta a beni reali (oro, debito garantito) per rafforzare la fiducia.

È una visione rivoluzionaria, che punta a rimettere lo Stato e il lavoro al centro del sistema economico, e a porre un argine al dominio incontrastato delle tecnocrazie monetarie e dei poteri finanziari transnazionali.

Fiscalità agevolata e protezionismo: boom degli investimenti

Trump ha anche reso più appetibile investire negli Stati Uniti attraverso massicci tagli fiscali. La combinazione di politiche protezioniste e incentivi fiscali ha prodotto un forte aumento degli Investimenti Diretti Esteri. Le multinazionali, attratte da condizioni vantaggiose e da un mercato stabile, stanno tornando a investire sul territorio americano.

È un circolo virtuoso: più investimenti = più occupazione = più gettito fiscale = meno dipendenza dal debito. Una dinamica diametralmente opposta a quella europea, fondata su austerità e compressione della domanda interna.

Un attacco al globalismo decadente

I dazi non sono solo un’arma economica. Sono anche un messaggio politico. Un attacco frontale al globalismo che ha distrutto il concetto di nazione, livellato i mercati e trasformato i cittadini in consumatori passivi. Trump si oppone a un sistema che ha premiato la speculazione, l’arbitraggio salariale, lo sfruttamento delle risorse e delle popolazioni, in nome di un “progresso” che ha fatto a pezzi le comunità locali e i principi su cui si fondava la civiltà occidentale: lavoro, responsabilità, solidarietà, identità.

La UE – nella sua forma attuale – rappresenta questo vecchio globalismo: centralizzato, burocratico, nemico della sussidiarietà e della libertà dei popoli. La presidenza von der Leyen ha portato questa logica al parossismo, imponendo una politica estera bellicista – in tandem con Zelensky, la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e i Paesi baltici – in totale contraddizione con la volontà popolare e con l’identità pacifica e cristiana dell’Europa.

Per l’Italia, una finestra storica

Questo scenario, per quanto turbolento, può diventare una straordinaria occasione per l’Italia. Se saprà differenziarsi dalla linea bellicista e filo-atlantista “di seconda mano” imposta da Bruxelles, Roma potrà proporsi come interlocutore privilegiato degli Stati Uniti, oggi ben disposti a considerare l’attuale leadership italiana in chiave strategica.

Gli USA, in cerca di sponde europee alternative, potrebbero riconoscere all’Italia un “credito politico” speciale – fosse anche per logorare un’Unione Europea che ha mostrato ostilità esplicita verso Trump e verso ogni forma di sovranismo.

L’Italia, se smette di seguire ciecamente la linea di Berlino e Parigi, ha l’opportunità di riaprire una politica estera autonoma, ispirata ai propri interessi nazionali, ai principi di pace, alla difesa del lavoro e della sovranità. In questo senso, un riallineamento con la nuova America trumpiana potrebbe essere la chiave per una rinascita geopolitica italiana.


Conclusione: un piano per la rinascita, non una fuga nel caos

La strategia di Trump non è un salto nel buio. È una sfida alle vecchie regole, un tentativo di rimettere la politica davanti alla finanza, la produzione davanti alla speculazione, la realtà davanti all’ideologia.

Il suo piano mira a:

  • riportare il lavoro al centro della politica economica,

  • rendere il debito sostenibile senza distruggere lo stato sociale,

  • smontare il sistema globalista elitario,

  • preparare l’America (e i suoi alleati) a un nuovo equilibrio multipolare.

È tempo che anche l’Italia apra gli occhi. Il mondo sta cambiando, e chi saprà leggere la direzione del vento potrà uscirne rafforzato. L’alternativa è restare ancorati a un’Europa che – sotto le insegne dell’unità – si sta trasformando in una tecnocrazia senz’anima, sempre più lontana dai popoli, dalla pace e dalla verità.