Negli ultimi anni, in Germania e nel Regno Unito si è assistito a un crescente irrigidimento legislativo e giudiziario nei confronti del cosiddetto “discorso d’odio” (hate speech), specialmente online. Governi e tribunali di entrambi i Paesi hanno introdotto normative sempre più severe e adottato azioni energiche contro espressioni ritenute offensive o istigatrici di odio sui social media. In questo articolo affronterò in profondità tali sviluppi – dai casi emblematici alle nuove leggi come il NetzDG tedesco e l’Online Safety Act britannico – evidenziando le implicazioni per la libertà di espressione, le derive ideologiche e gli abusi del concetto di “odio”. Verranno esaminati anche parallelismi con altri Paesi europei (Irlanda, Francia, Spagna) dove fenomeni simili stanno emergendo, insieme alle critiche sollevate da organizzazioni per i diritti civili, studiosi e politici preoccupati da queste tendenze.
La stretta legislativa in Germania
Leggi contro l’odio online (NetzDG e aggiornamenti): La Germania è stata pioniera nell’introdurre leggi specifiche per regolamentare i contenuti d’odio su Internet. Già nel 2017 ha approvato la legge nota come NetzDG (Netzwerkdurchsetzungsgesetz), o “legge di enforcement della rete”, che obbliga i grandi social network (oltre 2 milioni di utenti in Germania) a rimuovere entro 24 ore i contenuti “manifestamente illegali” di incitamento all’odio, pena sanzioni fino a 50 milioni di euro. Questa normativa – definita anche “legge Facebook” – non crea nuovi reati, ma impone alle piattaforme di agire celermente contro post già illegali secondo il diritto tedesco, come quelli che violano le norme penali sull’odio razziale, le minacce o la diffamazione.
Il NetzDG è stato fin da subito controverso: molti lo hanno criticato come incostituzionale e lesivo della libertà di parola, temendo che spingesse i social alla censura preventiva dei contenuti dubbi (loc.gov). Nel tempo, infatti, si è osservato che l’“overblocking” (rimozione eccessiva di contenuti non realmente illegali, per evitare rischi) è un effetto collaterale concreto. Dal 2021 il NetzDG è stato emendato per migliorarne alcuni aspetti: ad esempio, sono stati introdotti meccanismi di ricorso per gli utenti sanzionati e obblighi di trasparenza più stringenti per i provider (loc.gov). Inoltre, l’ambito di applicazione è stato esteso anche alle piattaforme di video-sharing, in linea con la direttiva UE sui servizi di media audiovisivi. Parallelamente, il governo tedesco ha varato ulteriori misure (come il Gesetz gegen Hasskriminalität del 2021) che richiedono alle piattaforme non solo di rimuovere, ma segnalare alle autorità certi tipi di post d’odio particolarmente gravi, per facilitare le indagini penali.
Il reato di Volksverhetzung e le nuove estensioni: Alla base della repressione del discorso d’odio in Germania c’è il codice penale, in particolare il §130 StGB, che punisce la Volksverhetzung (istigazione del popolo all’odio). Questa norma – erede di leggi introdotte dopo la Seconda guerra mondiale – vieta incitamenti all’odio e alla violenza contro gruppi nazionali, razziali, religiosi o etnici, nonché l’approvazione, la negazione o la minimizzazione dell’Olocausto. La pena può arrivare fino a 5 anni di carcere nei casi più gravi (ad esempio per la negazione del genocidio nazista) (bundestag.de).
Nel 2022 il Bundestag ha approvato un’ulteriore irrigidimento di questa legge: è stato aggiunto un nuovo comma (Abs. 5) al §130 per esplicitare che costituisce reato anche la pubblica approvazione, negazione o grossolana minimizzazione di qualsiasi genocidio, crimine contro l’umanità o crimine di guerra, se compiuta in modo idoneo a fomentare odio o disturbare la pace pubblica. In pratica, l’ambito prima limitato ai crimini nazisti si estende ora ad altri contesti storici (recependo una direttiva UE del 2008 contro razzismo e xenofobia). Ad esempio, oggi in Germania potrebbe essere perseguito chi istiga odio negando eccidi recenti riconosciuti a livello internazionale. Questa modifica legislativa non è passata senza opposizioni: deputati sia dell’AfD (destra) sia della Linke (sinistra radicale) hanno votato contro, denunciando il rischio di compromettere la libertà di espressione in nome di una formulazione troppo ampia del reatobundestag.de. Nonostante ciò, la maggioranza governativa ha sostenuto la necessità della stretta, sottolineando il dovere di allinearsi agli standard europei e di colmare lacune che avrebbero consentito ai negazionisti di genocidi diversi dall’Olocausto di restare impuniti (bundestag.debundestag.de).
Va ricordato che la legislazione penale tedesca già prevede altri articoli per contrastare l’estremismo di matrice nazista: ad esempio il §86a StGB vieta l’uso di simboli di organizzazioni anticostituzionali (come svastiche e saluti hitleriani). In Germania fare il saluto nazista (Hitlergruß) in pubblico è esplicitamente illegale, senza eccezioni di contesto: anche chi lo compie per scherzo o ironia commette reato e “può incorrere in punizioni, come una multa o persino il carcere” (thelocal.de) (fino a 3 anni di detenzione nei casi più seri). Questa severità deriva dalla storia tedesca: certe espressioni considerate hateful o apologetiche del nazismo sono proibite per legge in quanto lesive della dignità umana e della pace pubblica. Dunque, gesti o slogan hitleriani de facto non rientrano mai nella libertà di parola tutelata dalla Costituzione, nemmeno se l’autore sostiene un intento satirico.
Casi recenti e interventi giudiziari in Germania
La stretta normativa in Germania si riflette in una prassi applicativa molto vigorosa. Negli ultimi tempi hanno fatto discutere vari casi emblematici di sanzioni per discorsi ritenuti d’odio, anche quando erano presentati dagli autori come satira o opinioni personali. Ad esempio, alcune persone sono state multate per aver postato saluti hitleriani “ironici” online o meme con riferimenti nazisti in chiave provocatoria – episodi che confermano come l’ordinamento tedesco non tolleri tali gesti a prescindere dall’intento dichiarato. In generale, utenti sorpresi a condividere simboli o motti vietati (come “Sieg Heil”) o a banalizzare crimini del Terzo Reich incorrono in procedimenti penali quasi automatici.
Un notevole esempio di giro di vite giudiziario si è visto quando le autorità tedesche hanno organizzato vere e proprie retate coordinate contro i responsabili di contenuti d’odio sul web. In una recente “operazione martedì” all’alba, decine di squadre di polizia in tutta la Germania hanno fatto irruzione contemporaneamente in varie abitazioni, alla ricerca di persone sospettate di aver postato messaggi d’odio online (cbsnews.com). Non cercavano droga o armi, ma prove di post offensivi pubblicati sui social.
Questo approccio spettacolare, insolito per reati d’opinione, è frutto di una strategia precisa: far capire che Internet non è una zona franca e che chi ‘semina odio’ in rete può aspettarsi la polizia alla porta di casa.
Come ha dichiarato un procuratore coinvolto, in Germania la libertà di espressione è garantita, “ma ha anche i suoi limiti” (cbsnews.com) – e questi limiti vengono superati ogniqualvolta un’espressione venga considerata offensiva o incitante all’odio (CBS News). Molti indagati si sono detti sorpresi nel vedere che i loro commenti rientrassero in un ambito penalmente rilevante, ritenendoli parte del legittimo dibattito pubblico. Tuttavia, la normativa tedesca vieta espressamente ogni forma di discorso che possa fomentare ostilità contro gruppi sociali tutelati, così come gli insulti personali (Beleidigung), soprattutto se diffusi online, dove assumono una risonanza amplificata.
Il problema, però, è che la definizione di “odio” rischia di diventare uno strumento elastico, usato per mettere a tacere qualunque dissenso rispetto a posizioni ufficiali. In un contesto politico dove, ad esempio, contestare l’efficacia o la sicurezza di un vaccino può essere equiparato a diffondere odio o disinformazione, diventa evidente come l’accusa di hate speech possa trasformarsi in un’arma retorica contro la libertà di pensiero. Più la società viene uniformata attraverso direttive ideologiche, più ogni voce dissonante può essere trattata come una minaccia. E mentre si colpisce chi osa deviare dalla linea dominante, la vera violenza – quella strutturale, organizzata, istituzionale – è esercitata dallo Stato stesso, come nel caso della retorica bellicista sul riarmo e della preparazione a conflitti contro nemici designati, come la Russia.
Un altro caso recente ha riguardato l’odio misogino online: alla vigilia dell’8 marzo, la polizia federale (BKA) ha condotto un’operazione contro decine di individui accusati di aver postato insulti e minacce contro le donne in rete (apnews.com). In una “giornata d’azione contro la misoginia online”, gli agenti hanno perquisito case e interrogato 45 sospetti in 11 diversi Länder tedeschi in un solo giorno (altri 37 erano già stati colpiti nelle settimane precedenti). Nessuno è stato arrestato formalmente, ma i dispositivi elettronici sono stati sequestrati e saranno esaminati. Le autorità hanno spiegato che “stiamo osservando come le piattaforme online diventino sempre più teatro di odio, molestie e discriminazione, specialmente contro le donne”, e che con queste azioni dimostrative si vuole lanciare un messaggio chiaro: “entriamo consapevolmente negli spazi dell’odio, identifichiamo atti e autori, li togliamo dall’anonimato e li portiamo a risponderne”. Interessante notare che in Germania anche gli insulti generici contro le donne – in quanto “parte della popolazione” – possono essere inquadrati come istigazione all’odio punibile ai sensi del §130 StGB (apnews.com). Ciò estende la tutela penale oltre i tradizionali gruppi etnici o religiosi, includendo il genere tra i bersagli protetti. Se da un lato questo riflette la volontà di combattere sessismo e misoginia dilaganti online, dall’altro amplia ulteriormente il campo di intervento penale nel discorso pubblico.
In genere, le conseguenze per chi è riconosciuto colpevole di hate speech in Germania consistono in pene pecuniarie salate e talvolta nel sequestro dei dispositivi usati per commettere il reato. Le autorità sottolineano come togliere a qualcuno smartphone e computer sia esso stesso un deterrente significativo (“perdere il tuo smartphone è peggio che una multa”, nota un procuratore) (cbsnews.com). Nei casi più gravi o recidivi, possono scattare anche condanne detentive, segno di quanto seriamente la magistratura prenda questi illeciti.
Il ruolo delle ONG e le pressioni ideologiche in Germania
Ad alimentare e sostenere questa offensiva contro il discorso d’odio in Germania non sono solo le istituzioni statali tradizionali, ma anche organizzazioni non governative strettamente coinvolte nella causa. In particolare, ha acquisito visibilità
HateAid, un’ONG nata nel 2018 specificamente per combattere l’odio digitale e assistere le vittime di violenza online. HateAid si presenta come indipendente e apartitica, ma dichiaratamente “non neutrale” rispetto all’odio: rivendica di schierarsi fermamente contro “tutti coloro che violano i diritti umani e danneggiano la nostra democrazia” (hateaid.org). L’organizzazione offre consulenza psicologica e legale a chi subisce campagne d’odio sul web, e in casi selezionati finanzia azioni legali contro gli aggressori onlinehateaid.org. Allo stesso tempo, svolge un ruolo di advocacy pubblico: realizza campagne, petizioni e iniziative mediatiche per sensibilizzare contro l’hate speech e “incoraggia tutti a denunciare i contenuti illegali”. Sul sito di HateAid si trovano infatti form online dove i cittadini possono segnalare episodi d’odio in rete, che il team legale dell’ONG analizza con cura. In questo modo, HateAid funge da facilitatore tra il cittadino offeso e la giustizia, spingendo più persone a intraprendere azioni formali contro gli hater.
Un aspetto significativo è che HateAid collabora strettamente con le istituzioni ed è in parte finanziata con fondi pubblici. Secondo dati emersi da interrogazioni parlamentari, questa ONG ha ricevuto circa 4,7 milioni di euro di denaro dei contribuenti dal 2019 ad oggi. Metà della proprietà di HateAid fa capo a Campact e.V., un’associazione vicina ai movimenti progressisti, impegnata in campagne politiche di sinistra (europeanconservative.com).
Nonostante sul proprio sito HateAid affermi di tutelare la “diversità di opinione” online in modo non partigiano, altrove l’organizzazione avverte apertamente che “estremisti di destra e altri nemici della democrazia stanno conquistando Internet”, accusandoli di voler deliberatamente spaccare la società con odio e disinformazione (europeanconservative.com). Questa retorica – che tende a equiparare genericamente “la Destra” ai nazisti – ha alimentato critiche da parte di osservatori indipendenti, i quali vedono in HateAid e gruppi analoghi una sorta di braccio ideologico nella guerra all’hate speech. I
n altre parole, ONG finanziate anche dallo Stato portano avanti campagne che molti esponenti progressisti condividono, invocando ad esempio nuove leggi come quella contro la “violenza digitale” con sospensioni forzate degli account social dei colpevoli. I detrattori temono però che dietro l’etichetta bipartisan di difesa della democrazia queste ONG abbiano un’agenda politica ben precisa: silenziare soprattutto le voci di destra o non allineate al pensiero mainstream, bollando come “odio” qualsiasi opinione sgradita.
Il coinvolgimento di fondi pubblici amplifica il dibattito: è lecito che lo Stato finanzi organismi privati che, di fatto, fanno pressione per denunciare cittadini e irrigidire ulteriormente le leggi? Organizzazioni per le libertà digitali mettono in guardia dal rischio di una censura delegata: invece di essere neutrale arbitro, lo Stato finirebbe per sostenere attori che agiscono con logiche militanti.
Regno Unito: nuove leggi e casi controversi
Anche nel Regno Unito il pendolo regolatorio si sta spostando verso un controllo più stringente dei contenuti online, incluso l’hate speech, sebbene il contesto giuridico sia diverso da quello tedesco. Tradizionalmente, il diritto britannico (privo di una Costituzione scritta che garantisca la libertà di parola in termini assoluti come il Primo Emendamento USA) già punisce da tempo alcune forme di discorso offensivo o minaccioso. Ad esempio, esistono reati di comunicazione offensiva (Malicious Communications Act 1988, Communications Act 2003) che proibiscono l’invio di messaggi “grossolanamente offensivi” tramite sistemi pubblici.
Proprio sulla base di tali norme è stato perseguito uno dei casi più discussi degli ultimi anni: quello dello youtuber scozzese Count Dankula (alias Mark Meechan), che nel 2016 aveva pubblicato un video in cui addestrava il cane della fidanzata a fare il saluto nazista al comando “Sieg Heil”. Meechan sosteneva si trattasse di uno scherzo assurdo – “far fare a un carlino adorabile qualcosa di sconvolgente per creare contrasto comico” – ma la giustizia non ha colto l’ironia: è stato condannato per hate crime in quanto il video, dove il cane reagiva anche alla frase “gas the Jews” ripetuta decine di volte, è stato ritenuto “gravemente offensivo” e antisemita (cbsnews.comcbsnews.com). Nel 2018 un giudice scozzese gli ha inflitto una multa di 800 sterline e dichiarato in sentenza che, per quanto la libertà d’espressione sia importante, “in tutte le democrazie moderne la legge necessariamente pone alcuni limiti a tale diritto”. Il caso Dankula ha acceso un dibattito nazionale sui confini dell’umorismo e sul timore di un precedente pericoloso – come lo stesso youtuber lo ha definito – capace di incrinare la free speech. Comici di fama (ad es. Ricky Gervais) e commentatori sia liberali sia di destra hanno espresso preoccupazione per quella che vedevano come una deriva censoria. Di contro, i sostenitori della condanna hanno ribadito che l’antisemitismo, anche mascherato da gag, non può essere tollerato in una società civile.
Sulla scia di vicende come questa, il Regno Unito ha intrapreso una riforma organica della regolamentazione di Internet, culminata nell’approvazione dell’Online Safety Act 2023. Questa nuova legge – frutto di anni di dibattiti e bozze (nota in iter come Online Safety Bill) – rappresenta uno dei tentativi più ambiziosi al mondo di regolamentare i contenuti online su piattaforme social, servizi di messaggistica e motori di ricerca. In sintesi, l’Online Safety Act impone ai fornitori di servizi online un “dovere di diligenza” verso i propri utenti: essi dovranno implementare sistemi e processi per ridurre i rischi che i loro servizi vengano usati per attività illegali, e dovranno rimuovere tempestivamente i contenuti illegali (dalla pedopornografia al terrorismo, fino ai discorsi d’odio e alle minacce) non appena ne vengano a conoscenza (gov.uk). Le tutele più forti riguardano la protezione dei minori: le piattaforme dovranno impedire ai bambini di accedere a contenuti dannosi o inadatti all’età e fornire strumenti di segnalazione facilmente utilizzabili da genitori e minori stessigov.uk. Ma la legge prevede obblighi anche per la tutela degli adulti: i grandi social network dovranno essere più trasparenti riguardo alle tipologie di contenuti “dannosi ma legali” che sono ammessi sulle loro piattaforme, e offrire agli utenti adulti maggiori controlli sui contenuti che vogliono (o non vogliono) vedere In pratica, se un individuo vuole filtrare fuori dalla propria timeline discorsi di incitamento all’odio o altri contenuti offensivi, le piattaforme dovranno mettergli a disposizione strumenti per farlo.
L’ente regolatore Ofcom è investito del potere di vigilare sul rispetto dell’Online Safety Actgov.uk. Ofcom potrà emanare codici di condotta dettagliati su come le aziende devono conformarsi agli obblighi di legge e avrà ampi poteri ispettivi e sanzionatori. In caso di inosservanza, le multe potranno arrivare fino al 10% del fatturato globale di una compagnia – cifre da capogiro nel caso dei colossi Big Tech. In situazioni estreme, i dirigenti delle aziende potrebbero perfino rischiare conseguenze penali personali (ad esempio se si prova che hanno ignorato deliberatamente ordini di Ofcom mettendo a repentaglio i minori). La legge introduce anche nuovi reati per gli utenti: tra questi, uno punisce con fino a 2 anni di carcere chiunque invii messaggi sui social con l’intento di causare “danno psicologico che equivalga almeno a un serio turbamento” (eff.org). Questa formulazione mira a colpire il cosiddetto trolling maligno (es. minacce o molestie mirate a intimidire e far soffrire la vittima), ma ha suscitato interrogativi su come si definirà in pratica il “danno psicologico” e se possa limitare discorsi anche aspri ma leciti.
L’Online Safety Act è stato giustificato dal governo di Londra come una risposta necessaria per “rendere internet più sicuro”. Autorità e sostenitori sottolineano che la legge è “proporzionata” (impone tutele commisurate alla dimensione e ai rischi delle piattaforme, evitando di schiacciare le più piccole) e che richiede di tenere conto dei diritti degli utenti: sia Ofcom nei suoi codici, sia le piattaforme nell’agire, dovranno avere “particolare riguardo” alla libertà di espressione e alla privacy (gov.uk). Tuttavia, malgrado queste rassicurazioni formali, la normativa ha incontrato fortissime critiche da una vasta coalizione di attori: attivisti per i diritti digitali, aziende tecnologiche, giornalisti e perfino esponenti di Paesi alleati.
Le preoccupazioni sono diverse: in primis, la privacy e la sicurezza dei sistemi cifrati. L’Act infatti richiede alle piattaforme di monitorare e prevenire contenuti illegali anche nelle comunicazioni, il che potrebbe implicare di indebolire la crittografia end-to-end in servizi come WhatsApp o Signal. A tal proposito, organizzazioni come l’Electronic Frontier Foundation (EFF) denunciano che la legge “minaccia il nostro diritto a conversazioni private” perché spalanca la porta alla sorveglianza generalizzata di tutti i contenuti utente (eff.orgeff.org). Un altro punto contestato è l’age verification obbligatoria che molti siti dovranno implementare per impedire ai minori di accedere a contenuti per adulti: ciò implica raccogliere dati personali sensibili (documenti, biometrici) degli utenti, con rischi per la privacy e potenziali esclusioni di persone anonime dal web. Inoltre, i critici sottolineano che di fatto l’Online Safety Act introduce un regime di filtro e scansione preventiva dei contenuti senza precedenti in una democrazia liberale: la lista dei contrari include sigle come Liberty, Article 19, Big Brother Watch, Index on Censorship, Open Rights Group, nonché aziende del calibro di Apple, Meta/WhatsApp e Signal, tutte unite nel dire che così com’è la legge rappresenta un modello per la censura di stato globale. L’EFF ha avvertito che l’OSB britannico costituirebbe “un progetto per la repressione in tutto il mondo”, capace di ispirare regimi autoritari a giustificare limitazioni analoghe.
A conferma delle crescenti preoccupazioni, già nel 2023 diversi servizi di messaggistica criptata – tra cui Signal e WhatsApp – hanno minacciato di abbandonare il mercato britannico piuttosto che sottostare a richieste di inserire backdoor nei propri sistemi, che avrebbero permesso allo Stato di intercettare e scansionare i messaggi privati alla ricerca di contenuti illeciti. La questione ha assunto una portata internazionale nel 2025, quando è emerso che funzionari del Dipartimento di Stato americano hanno incontrato l’autorità di regolazione britannica (Ofcom) a Londra, sollevando dubbi sull’impatto dell’Online Safety Act e sui possibili effetti restrittivi per la libertà di espressione (theguardian.com). Un portavoce USA ha espresso con chiarezza la posizione americana: “è fondamentale che il Regno Unito rispetti e protegga la libertà di espressione”, un monito che rivela una tensione crescente tra alleati e segnala il disagio di Washington di fronte a modelli regolatori eccessivamente invasivi. Non è un dettaglio: negli Stati Uniti, il Primo Emendamento rappresenta un cardine intoccabile, e ogni tentativo di normare il dissenso viene guardato con sospetto.
Colpisce, per contrasto, l’enfasi con cui proprio la Gran Bretagna afferma di voler “proteggere gli utenti”, mentre nella realtà le priorità sembrano sbilanciate: se la tutela fosse davvero rivolta alla sicurezza degli individui, il focus dovrebbe concentrarsi su pericoli concreti e immediati – come l’accesso dei minori alla pornografia estrema o ai contenuti violenti – piuttosto che sulla regolamentazione dell’opinione pubblica. La realtà è che proprio la libera circolazione delle idee – quando non allineate alle agende ufficiali – finisce sotto sorveglianza. Ed è ancora più paradossale se si considera che gli stessi servizi segreti britannici e occidentali, in altri contesti, utilizzano attivamente tecniche di informazione e disinformazione per indirizzare proteste e orientamenti politici nei paesi non allineati. Ciò che è descritto come “hate speech” o “disinformazione” in casa propria, diventa improvvisamente “libertà di attivismo” quando applicato a regimi esterni. Un doppio standard che mina alla base ogni credibilità nel proclamato intento di difendere la democrazia.
Ma dopo questa considerazione torniamo al regolamento britannico: Pur essendo l’Online Safety Act una novità recente (la legge è stata approvata definitivamente solo a fine 2023, con implementazione graduale nei prossimi due anni), il dibattito sul “discorso d’odio” nel Regno Unito è alimentato anche da una serie di episodi controversi avvenuti sotto la vigenza delle norme precedenti.
Oltre al citato caso Count Dankula, vi sono stati numerosi episodi di interventi di polizia per post o messaggi ritenuti offensivi. Uno dei più discussi risale all’estate 2022: un veterano dell’esercito di 51 anni, Darren Brady, è stato arrestato nella contea di Hampshire dopo aver condiviso su Facebook un meme (originariamente postato dall’attore Laurence Fox) che mostrava delle bandiere Pride disposte a forma di svastica. Il meme voleva essere – secondo Fox – una provocazione contro l’“atteggiamento autoritario” di alcuni attivisti LGBT, ma ha prevedibilmente sollevato indignazione. La polizia, intervenuta a casa di Brady con ben 5 agenti, gli ha contestato di aver diffuso un’immagine che aveva “causato ansia a qualcuno” (foxnews.com).
Un video virale riprende uno degli ufficiali spiegare al veterano ammanettato che sì, lo stavano arrestando proprio perché quel post aveva angosciato una persona – frase che per molti ha rappresentato l’apice del policing zelante dei pensieri (“arrestato perché hai causato ansia” è diventato uno slogan critico). Il caso si è concluso tra le polemiche: Brady rifiutò di pagare una penalty notice e di partecipare a un corso rieducativo sui crimini d’odio, e successivamente la polizia di Hampshire dovette fare marcia indietro, scusandosi per l’approccio e ritirando l’azione penale. L’episodio ha spinto alcune forze politiche a chiedere linee guida più chiare: il governo ha in seguito emanato direttive per limitare la registrazione dei cosiddetti “non-crime hate incidents” – ossia segnalazioni di episodi di odio non qualificati come reato – che negli anni precedenti erano stati annotati nei database di polizia (oltre 120.000 casi in meno di un decennio) con potenziali effetti negativi sulla reputazione di cittadini mai condannati. La Corte d’Appello nel caso Miller (2021) aveva già criticato questa pratica, definendola un’ingerenza ingiustificata nella libertà d’espressione, e ora le autorità stanno adeguandosi per bilanciare meglio il dovere di prevenzione con i diritti individuali.
Nel frattempo, restano attive le leggi penali contro l’odio già esistenti: il Regno Unito possiede specifici reati di incitamento all’odio razziale o religioso (previsti dal Public Order Act 1986 e successive estensioni), che sanzionano ad esempio chi pubblicamente incita alla violenza o all’odio contro gruppi per la loro etnia o fede. (La compianta Oriana Fallaci sarebbe arrestata?).
Beh gli esempi paradossali sarebbero molti. Comunque, le normative contro il terrorismo hanno criminalizzato l’apologia di gruppi terroristi e la diffusione di materiale terroristico. Queste fattispecie, a volte, si sovrappongono al concetto di hate speech. Ad esempio, alcuni predicatori estremisti o attivisti che hanno diffuso contenuti jihadisti o suprematisti sono stati puniti ai sensi di tali leggi. Al contempo, la giurisprudenza britannica ha mostrato qualche segnale di tutela della libertà di espressione: nell’ottobre 2022, la Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che le citazioni bibliche anti-omosessuali (nel caso di un predicatore di strada) rientravano nel diritto di manifestare opinioni, purché non accompagnate da istigazione a violenza. Ciò indica come il confine tra discorso consentito e discorso illecito venga tracciato con cautela caso per caso. Ma certamente questo non è sufficiente: se una citazione biblica è lecità perchè mai no, il suo accoglimento?
Tendenze simili in Europa: i casi di Irlanda, Francia, Spagna
Il panorama europeo vede diversi Paesi muoversi in direzione di un inasprimento delle norme sul discorso d’odio, sollevando timori analoghi a quelli riscontrati in Germania e UK.
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Irlanda: il governo irlandese sta portando avanti una nuova legislazione denominata Criminal Justice (Incitement to Violence or Hatred and Hate Offences) Bill, concepita per aggiornare e rafforzare le norme contro l’incitamento all’odio. Il disegno di legge, approvato in una camera parlamentare nel 2023, prevede pene fino a 5 anni di reclusione per chiunque, con intento ostile, comunichi materiale che inciti alla violenza o all’odio verso persone a causa della loro appartenenza a gruppi protetti (etnia, religione, orientamento sessuale, identità di genere, ecc.). Una clausola molto discussa introduce persino il reato di detenzione di materiale odioso: in pratica, se qualcuno viene trovato in possesso di testi o immagini “incitanti all’odio” e non riesce a dimostrare di non averli per diffonderli a terzi, può essere incriminato. Questa previsione ha allarmato diversi osservatori: è stata definita vaga e facilmente passibile di abusi (basterebbe un file controverso sul computer per essere sospettati). Il dibattito ha travalicato i confini nazionali quando personalità come Elon Musk hanno criticato pubblicamente la legge irlandese, parlandone come di un “grave attacco alla libertà di espressione”. Organizzazioni locali e internazionali per i diritti civili hanno fatto eco a queste critiche, temendo che l’Irlanda – tradizionalmente vista come paladina di diritti civili – stia imboccando una strada pericolosa verso la censura di Stato in nome dell’anti-odio. Le autorità irlandesi replicano che la legge serve a colmare un vuoto normativo e a garantire strumenti efficaci contro l’odio razzista e omofobo, specie dopo episodi di cronaca nera (come aggressioni a sfondo razziale). Il testo non è ancora definitivo, ma la tendenza è chiara: anche l’Irlanda, come UK e Germania, intende dare un segnale forte contro i discorsi d’odio, accettando il rischio di restringere ulteriormente lo spettro delle opinioni lecite.
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Francia: la Francia dispone da lungo tempo di leggi severe contro il razzismo, l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto (la Loi Gayssot del 1990 punisce quest’ultima come reato). Negli ultimi anni, Parigi ha cercato di spingersi oltre, soprattutto per quanto riguarda l’odio online. Nel 2020 la maggioranza presidenziale ha approvato la cosiddetta Loi Avia, una legge che obbligava le piattaforme e i motori di ricerca a rimuovere entro 24 ore qualsiasi contenuto “manifestamente illegale” segnalato dagli utenti perché incitante all’odio, alla violenza o discriminatorio (nonché entro 1 ora contenuti di terrorismo o pedopornografia segnalati dalla polizia)loc.gov. Le sanzioni previste in caso di inadempienza erano elevatissime (fino a 4% del fatturato globale, con un massimo di 20 milioni di euro).
La Loi Avia rappresentava uno degli interventi più drastici in Europa sul tema; tuttavia, suscitò immediatamente ampie opposizioni trasversali: gruppi politici di ogni colore, giuristi e la stessa Commissione nazionale consultiva dei diritti umani (CNCDH) denunciarono che la legge costituiva “una minaccia sproporzionata alla libertà di espressione”, in quanto il brevissimo termine di rimozione associato a multe altissime avrebbe indotto le piattaforme a censurare in eccesso, eliminando qualsiasi contenuto anche solo potenzialmente rischiosol. Inoltre, si criticava il fatto di delegare a algoritmi o moderatori privati il giudizio sulla legalità dei contenuti, anziché ai tribunali.
Non a caso, a giugno 2020 il Conseil constitutionnel francese ha bocciato le parti principali della Loi Avia, ritenendo che imporre la rimozione di hate speech in 24 ore sotto minaccia di sanzioni enormi violasse il principio di proporzionalità e le garanzie del diritto alla libera comunicazione (loc.gov). Nella sua decisione, la Corte Costituzionale ricordò che se è legittimo punire per legge l’abuso della libertà di parola (come l’hate speech stesso), le restrizioni devono essere necessarie, proporzionate e adeguate allo scopo – requisiti che quella legge non soddisfaceva, prevedendo un meccanismo ritenuto né necessario né proporzionato né realmente efficace. Di conseguenza, la Loi Avia entrò in vigore priva degli articoli più controversi (rimase solo qualche disposizione minore, come l’istituzione di un procuratore specializzato per i reati d’odio online).
Nonostante lo stop giudiziario a quella specifica legge, la Francia continua ad applicare rigorosamente il suo arsenale legislativo ordinario: espressioni di odio razziale possono portare a condanne penali e multe salate (si ricordino casi come la condanna del politico Jean-Marie Le Pen per aver definito le camere a gas “un dettaglio della storia”), e recentemente sono finiti sotto processo per “odio” anche cittadini comuni sui social (ad esempio per insulti razzisti rivolti a calciatori dopo una partita). Il confine tra critica legittima e incitamento illecito in Francia è presidiato con attenzione, ma resta oggetto di dibattito: anche qui, come altrove, voci della società civile avvertono di evitare che l’antirazzismo diventi censura del dissenso.
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Spagna: negli anni 2000 la Spagna ha ampliato la propria legislazione introducendo norme molto dure in materia di sicurezza e lotta all’estremismo. L’Articolo 510 del Codice Penale spagnolo punisce l’incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione per motivi razziali, religiosi, di genere, orientamento sessuale, ecc., con pene detentive che possono arrivare a 4 anni. Ma i casi più discussi in Spagna riguardano il controverso reato di “glorificazione del terrorismo” e “ingiurie alla Corona”, parte della cosiddetta “Ley Mordaza” (legge bavaglio) del 2015 varata dal precedente governo conservatore (reuters.com). Questa legge, emanata ufficialmente per combattere l’apologia di gruppi armati come l’ETA, in pratica vieta e reprime anche forme di espressione (soprattutto online) considerate offensive verso le istituzioni o celebrative di violenza politica.
Nel 2018-2021 si sono avuti vari episodi in cui artisti e utenti social sono stati condannati in base a queste norme, sollevando proteste in difesa della libertà di espressione. Il caso simbolo è quello del rapper catalano Pablo Hasél: nei suoi tweet e testi musicali Hasél definiva l’ex re Juan Carlos un mafioso, accusava la polizia di torture e inneggiava a gruppi rivoluzionari. Per queste frasi è stato condannato a 9 mesi di carcere per incitamento all’odio e vilipendio della Corona (sentenza confermata nel 2021)reuters.comreuters.com. Il suo arresto, eseguito con la forza dopo che si era barricato in un’università, ha scatenato manifestazioni in tutta la Spagna e ha visto oltre 200 artisti (tra cui registi e musicisti famosi) firmare appelli per la sua liberazionereuters.com. Amnesty International ha definito “ingiusta” la carcerazione di Hasél e chiesto la riforma urgente di queste leggi repressive (amnesty.org).
In risposta, il governo di coalizione spagnolo ha promesso di allentare le restrizioni: ha annunciato l’intenzione di modificare le norme affinché solo le azioni che “comportino chiaramente un rischio per l’ordine pubblico o istighino a condotte violente” siano punibili, sostituendo le pene detentive con sanzioni meno afflittive nei casi minori (reuters.com). Questo impegno di riforma – segno di un ripensamento almeno parziale – è nato proprio “sulla scia del clamore nazionale” seguito al caso Hasélreuters.comreuters.com. Nel frattempo, tuttavia, altri artisti come il rapper Valtònyc (condannato a 3 anni per testi anti-monarchici) sono fuggiti all’estero per evitare il carcere, e persistono procedimenti contro utenti per tweet ritenuti offensivi verso la religione o gruppi sociali. La Spagna dunque incarna bene le contraddizioni di questa stagione: da un lato applica leggi anti-odio e anti-terrorismo che hanno portato a punire anche forme di satira o protesta (generando l’accusa di censura), dall’altro la stessa società (e parte della classe politica) riconosce la necessità di riequilibrare la bilancia dei diritti, per non soffocare il dissenso e la creazione artistica.
Derive ideologiche e reazioni: il delicato equilibrio con la libertà di espressione
L’indurimento delle misure contro il discorso d’odio in Germania, Regno Unito e altri Paesi europei solleva una questione fondamentale: come bilanciare la lotta ai discorsi di odio e alla disinformazione pericolosa con la tutela della libertà di espressione, pilastro delle democrazie liberali?. Molte voci critiche ritengono che attualmente l’ago della bilancia stia pendendo eccessivamente verso la censura, con il rischio di soffocare il pluralismo delle opinioni e creare precedenti pericolosi.
Tra i principali timori vi è il potenziale abuso politico del concetto di “hate speech”. Poiché non esiste una definizione universalmente accettata di cosa costituisca “discorso d’odio” – al di là di categorie estreme come gli insulti razzisti diretti – si teme che governi o gruppi di pressione possano etichettare come odio anche critiche legittime o punti di vista scomodi, al fine di delegittimarli e censurarli. Ad esempio, in Germania l’enfasi posta da alcune ONG vicine al governo nel presentare le destre populiste come “nemiche della democrazia” e nel promuovere legislazioni sempre più punitive, è vista da taluni come una forma di crociata ideologica mascherata da necessità di sicurezza (europeanconservative.com).
In altre parole, quella che dovrebbe essere un’opera nobile di contrasto al razzismo e alla violenza verbale rischia di diventare – secondo i critici – un “pendio scivoloso” verso la soppressione di qualunque discorso dissenziente rispetto al mainstream progressista. Un esempio concreto potrebbe essere il trattamento riservato a opinioni conservative su temi sensibili (migrazione, identità di genere, religione): in contesti sempre più polarizzati, posizioni espresse in termini civili ma critici verso l’immigrazione di massa o verso movimenti LGBT sono talvolta additate come “hate speech” dai detrattori, invocando l’intervento censorio. Ciò produce un effetto raggelante (chilling effect): molti utenti potrebbero autocensurarsi per timore di incorrere in sanzioni penali o attacchi reputazionali, impoverendo così il dibattito pubblico.
Organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno lanciato allarmi in tal senso. Article 19, storica ONG per la libertà di espressione, ha avvertito che iniziative come l’Online Safety Act britannico rischiano di “incoraggiare i leader digitali autoritari in tutto il mondo” a imitare queste norme per soffocare il dissenso (eff.org). La Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto (Commissione di Venezia) ha più volte ribadito che la legislazione anti-odio deve essere calibrata con estrema attenzione, perché ogni restrizione al discorso ha un impatto sul diritto democratico dei cittadini di esprimere e ascoltare idee. Anche organi nazionali come la già citata CNCDH in Francia hanno sottolineato il pericolo dell’over-censorship incentivata da leggi mal congegnate (loc.gov).
In conclusione, Germania e Regno Unito stanno facendo da laboratorio per aumentare le tecniche di controllo sulla popolazione. Da un lato, vediamo blitz di polizia all’alba contro i cosidetti “seminatori d’odio” in rete e nuovi reati per post offensivi che causano “ansia” – segnali di un approccio a tolleranza zero. Dall’altro lato, vediamo giudici costituzionali che cassano leggi anti-odio perché non proporzionate, e manifestazioni in piazza per cantanti condannati per le loro opinioni . Ovviamente tutto questo ha un nome: censura.
La vera sfida per le democrazie liberali europee sarà quella di saper ascoltare l’avvertimento lanciato dal vicepresidente statunitense J.D. Vance alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza: “il vero pericolo per l’Europa non viene da Cina o Russia, ma dall’interno”.
Emblematica in quell’occasione che Vance abbia ricordato un caso emblematico della deriva autoritaria in atto: quello di un cittadino cristiano arrestato nel Regno Unito per aver pregato — in silenzio e solo con il pensiero — davanti a una clinica per aborti. Nessuna parola, nessun cartello, nessuna azione concreta: solo la presenza silenziosa, che è bastata alla polizia per considerarla un comportamento “problematico”. Un episodio surreale che dimostra come, sotto il pretesto della sicurezza o della protezione da presunte offese, si stiano restringendo perfino le forme più intime e personali di espressione. Quando anche il pensiero muto diventa oggetto di repressione, è evidente che la libertà non è più solo minacciata, ma già profondamente compromessa.
In un’epoca in cui si moltiplicano le norme sul controllo del discorso pubblico, l’indirizzamento coatto delle opinioni e la repressione preventiva del dissenso rappresentano uno dei segnali più gravi dell’involuzione democratica in corso. L’Unione Europea, ormai percepita da una parte crescente dei suoi cittadini come distante, opaca e ideologizzata, ha perso credibilità e si affida sempre più a meccanismi coercitivi per mantenere un fragile consenso. Alcuni Stati membri stanno facendo da apripista a un nuovo autoritarismo, travestito da tutela del bene comune, ma privo di una reale volontà di confronto.
Se le intenzioni fossero realmente buone, si tradurrebbero in un investimento nella formazione culturale, nella promozione dello spirito critico, nella responsabilizzazione dei cittadini. Invece, ciò che prevale è una deriva normativa che non stimola la libertà, ma la teme: il dissenso non viene accolto come parte del pluralismo democratico, bensì represso come minaccia. In questo scenario, un sistema che codifica ogni deviazione come “discorso d’odio” rischia di produrre un effetto contrario a quello dichiarato. Il rimedio, se fondato esclusivamente sulla censura e sulla sanzione, può rivelarsi peggiore del male: la tanto decantata “lotta all’odio” finisce così per assomigliare sempre più a un abuso di potere, o peggio ancora, a una vera e propria “caccia alle streghe” ideologica.
In fondo, ogni civiltà si misura non dalla sua capacità di imporre il silenzio, ma dalla sua disponibilità ad accogliere anche ciò che disturba, provoca o mette in discussione il pensiero dominante. La libertà non è un privilegio da concedere a chi è d’accordo, ma un diritto che si difende proprio quando fa male, quando è scomoda, quando ci costringe a confrontarci con ciò che non vorremmo sentire. È lì che si gioca la tenuta di una democrazia autentica. Se invece il dibattito pubblico verrà ridotto a una zona sorvegliata, in cui si può parlare solo entro i confini tracciati dal potere, allora non resterà che una parvenza di libertà: l’ombra di un’Europa che, per paura del conflitto, avrà rinunciato alla sua stessa anima.
Fonti:
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Alfonsi S., Chasan A., CBS News – 60 Minutes, “Germany is prosecuting online trolls. Here’s how the country is fighting hate speech on the internet.” (16 Feb 2025)cbsnews.comcbsnews.com
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Grieshaber K., AP News, “German police conduct raids against people suspected of posting misogynistic hate speech online” (Mar 2025)apnews.comapnews.com
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Library of Congress – Global Legal Monitor, “Germany: Network Enforcement Act Amended to Better Fight Online Hate Speech” (Jul 2021)loc.gov
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Deutscher Bundestag – Dokumente, “Volksverhetzungs-Paragraf… geändert” (Ott 2022)bundestag.debundestag.de
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The Local (German edition), “What are the rules around showing the ‘Nazi salute’ in Germany?” (21 Jan 2025)thelocal.dethelocal.de
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Holmgren-Larson C., The European Conservative, “German Left-Wing Activists Received €4.7 Million in Taxpayer Funds” (20 Sep 2024)europeanconservative.comeuropeanconservative.com
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Wallace D., Fox News, “UK police say British Army veteran arrested because anti-LGBTQ social media post ‘caused anxiety’” (2 Aug 2022)foxnews.com
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CBS News / AP, “Dog Nazi salute sentence: Mark Meechan fined for posting video of pug’s responses to ‘sieg heil’” (23 Apr 2018)cbsnews.comcbsnews.com
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GOV.UK – Online Safety Act Explainer (agg. Apr 2025)gov.ukgov.uk
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Electronic Frontier Foundation, “The UK Online Safety Bill: A Massive Threat to Online Privacy, Security, and Speech” (May 2023)eff.orgeff.org
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Savage M. et al., The Guardian, “US officials challenge Ofcom over online safety laws’ impact on free speech” (1 Apr 2025)theguardian.comtheguardian.com
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Library of Congress – Global Legal Monitor, “France: Constitutional Court Strikes Down Key Provisions of Bill on Hate Speech” (Jun 2020)loc.govloc.gov
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Pinedo E., Reuters, “Spain to reform free speech laws after rapper ordered jailed” (9 Feb 2021)reuters.comreuters.com
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Jones S., The Guardian, “Angry words: rapper’s jailing exposes Spain’s free speech faultlines” (24 Feb 2021)amnesty.org