Nella nottata di ieri Putin, il presidente azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan hanno firmato un accordo che, per la prima volta dall’inizio del conflitto nel Caucaso, ha (salvo imprevisti) serie possibilità di funzionare. La guerra ha piegato da subito a favore degli azeri, che, forti del sostegno turco, hanno rosicchiato, settimana dopo settimana, le regioni del loro territorio a ridosso del confine iraniano occupate dagli armeni negli anni Novanta  per poi entrare, negli ultimi giorni, nel Nagorno Kharabakh vero e proprio, arrivando domenica scorsa  a conquistare (o liberare, secondo il loro punto di vista) la città di Shusha, seconda per importanza della regione e ultimo bastione prima della capitale Stepanakert.

A questo punto l’Armenia ha dovuto abbandonare le ultime speranze di coinvolgere la Russia sulla base del trattato di alleanza (che peraltro impegna Mosca a difendere solo l’ Armenia propriamente detta) e  riconoscere la sconfitta, affrettandosi ad accettare la proposta messa sul tavolo da Putin già lo scorso 29 ottobre. Restituzione di tutte le regioni (cinque) occupate nella guerra vittoriosa che seguì l’indipendenza dei due Paesi, e poi trattative che dovranno determinare lo status dei territori (due regioni) che costituiscono il Nagorno Kharabak vero e proprio e che rientrerà a far parte solo nominalmente dell’Azerbaigjan, grazie alla tutela russa.

La cerimonia dell’ accordo  è avvenuta telematicamente: lo spezzone trasmesso da Ria Novosti ritrae la firma del vincitore Aliyev e di un Putin visibilmente soddisfatto nella parte bismarkiana di onesto sensale,  glissando elegantemente sullo sconfitto Nikol Pashinyan, portato al potere da una rivoluzione di velluto nel 2018 e ora costretto a far ingoiare al popolo la medicina amara di una capitolazione che probabilmente segnerà la sua fine politica.

E pensare che solo poche ore prima la maionese era sembrata sul punto di impazzire, quando gli azeri avevano abbattuto (per errore) un elicottero Mi24 russo impegnato scortare un convoglio stanziato nella base di Mosca in Armenia, uccidendo due uomini dell’ equipaggio. Incidente risolto con le scuse di Baku e di Aliyev, giunte a stretto giro, e presto archiviato in un momento in cui tutte le parti avevano interesse a glissare.

La parte interessante dell’ accordo, per Mosca, è quella che prevede l’intervento dei suoi peacekeepers nella regione. Parliamo di quasi duemila uomini con 90 blindati e 180 mezzi, che sono già arrivati in Armenia e si dispiegheranno presto, sommandosi  ai tremila già presenti nella locale Base 102.

Si sono avute le reazioni smarrite dei soliti tifosi pro e contro, che vedono la Russia nella rappresentazione distorta e misticheggiante della propaganda e quindi considerano il Presidente russo come il leggendario Prete Gianni destinato sempre e comunque a soccorrere i Cristiani nel mondo o, specularmente, come gli eserciti di Gog e Magog in marcia agli ordini dell’Anticristo.  Ma Putin, invece,  la Transcaucasia è il teatro ideale in cui dispiegare il pragmatismo per cui è famoso. Paese al tempo cristiano e musulmano, europeo e asiatico, luogo di lavoro e patria elettiva di milioni di azeri e armeni, la Russia non ha nessun interesse a restare invischiata in beghe territoriali e odi atavici che si trascinano senza esito da secoli. Cosa peraltro chiarissima all’uomo della strada russo che, secondo tutti i sondaggi, non ha preferenze di sorta fra le parti in conflitto.

Piuttosto Mosca deve fare i conti con un problema secolare: il fatale declino dell’influenza della Russia nel cosiddetto “estero vicino”. Quegli spazi si offrono oggi naturalmente alla penetrazione di altri attori e le loro élite (compresa quella armena) sono sistematicamente intente a cancellare il retaggio del passato sovietico (a cominciare dall’uso del russo come lingua franca) per legittimare le odierne aspirazioni nazionali. In questo difficile quadro, Putin si è ritagliato un intelligente ruolo di ago della bilancia, di attore affidabile e vicino a entrambi i contendenti che non pretende di decidere il vincitore ma si intesta la composizione dei conflitti.

Grazie a questa accorta strategia, Putin è riuscito a centrare quello che il mese scorso  avevamo intravisto essere il suo obiettivo, ovvero raccogliere i litiganti alla propria corte per benedire l’ accordo finale. Nel contempo, ha consolidato i rapporti di fiducia con l’Azerbaijan e con Aliyev, snodo cruciale dei traffici energetici fra Europa ed Asia Centrale e fulcro della possibile collaborazione regionale con l’Iran, e ha mostrato agli armeni quanto siano pericolose le tentazioni “colorate” incarnate da Pashinyan e una fedeltà men che ligia al patrono moscovita.

Non sembra riuscito fino in fondo, questa volta, il solito gioco del turco Erdogan: entrare in un teatro gestito dai russi e, litigando un po’ davvero e un po’ per finta, escludere tutti gli altri attori restando gli arbitri della situazione. Si potrà comunque, nei prossimi passaggi, concedere qualcosa anche alla Turchia, Paese la cui economia e demografia non legittimano, nel medio periodo, la politica di grande potenza promossa da Erdogan.

Quel che resterà, anche dopo l’ eclisse delle velleità turche, è una consistente forza militare russa che si installa, per almeno cinque anni (con una promettente clausola di rinnovo automatico, salvo disdetta da comunicare sei mesi prima), proprio nel cortile di Turchia e Iran, garantendo una utile posizione di forza da cui trattare i necessari compromessi.

di Marco Bordoni

Marco Bordoni è autore del canale Telegram “La mia Russia”

source:https://letteradamosca.eu/2020/11/10/aliyev-canta-vittoria-a-putin-va-bene-cosi/