A proposito del “non ci indurre in tentazione” del Padre nostro

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Foto di Luigi Colonna

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Ieri sera ero presente alla catechesi mensile di mons. Nicola Bux, Consultore della Congregazione Cause dei Santi e già consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede. Tra le tante domande è emersa una che chiedeva quale fosse la giusta interpretazione da dare alla frase della preghiera del Padre nostro “non ci indurre in tentazione”, visto che è stata cambiata in “non abbandonarci alla tentazione”.

Mons. Nicola Bux ha detto che la giusta interpretazione da dare è: “non ci mettere alla prova”. Per farci capire meglio, ha detto che la parola “tentazione” deve intendersi, volendo usare una parola moderna, come “test”. Non “testare”, cioè non mettere alla prova la nostra fede.

Dunque, la frase “non ci indurre in tentazione” non deve affatto interpretarsi come se noi implorassimo Dio affinché non ci spinga alla tentazione del peccato. Poiché ciò sarebbe semplicemente contraddittorio.

Ad integrazione di quanto detto da mons. Bux, riprendo dalla sua pagina Facebook un parere di Moreno Morani, professore ordinario di glottologia dell’Università degli Studi di Genova, dove è stato anche direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, del Medioevo e geografico-ambientali (DISAM) e del Dipartimento di Scienze Glotto-etnologiche (Disglet).

Ecco la sua posizione:

“Anche se persone molto più titolate di me hanno già espresso il loro parere, vorrei dire anch’io la mia sulla questione del “non indurci in tentazione”.
1. Non sono un teologo, ma ho amici teologi, e tutti unanimemente hanno espresso più di una perplessità sulla nuova “traduzione”.
2. Di lingue e traduzioni invece penso di intendermene un po’ di più. Quindi mi permetto di esprimere alcune considerazioni.
a. I. Le traduzioni possono cambiare nel tempo, perché seguono il mutare delle lingue. Pertanto un cambiamento della traduzione in sé non sarebbe scandaloso. Da piccolo nell’Ave Maria dicevo “il Signore è teco”, oggi tutti diciamo “il Signore è con te”: eliminazione di una forma ormai uscita dall’uso e sostituzione col suo equivalente. Nessun problema.
a. II. Le traduzioni possono cambiare, ma devono rimanere traduzioni, non possono essere sostituite da parafrasi. Se un testo ha bisogno di chiarimenti, si scrivono note a piè di pagina o in appositi scritti, ma il testo non è soggetto a cambiamenti, altrimenti abbiamo quella che tecnicamente si chiama una interpolazione. Il testo del Nuovo Testamento in particolare, proprio per il valore che esso riveste per la comunità cristiana, richiede al traduttore un grande equilibrio. Si ricordi  come Gerolamo, santo patrono dei traduttori, nella Lettera a Pammachio inviti i traduttori del NT alla massima cautela e rispetto del testo, perché nel testo biblico anche la disposizione delle parole “mysterium est”. Un conto è tradurre Omero o Virgilio o qualunque altro testo di letteratura o meno, un altro conto è tradurre la Bibbia (e anche su molte versioni correnti ci sarebbe moltissimo da dire).
b. Per il Padre Nostro, il testo a cui fare riferimento è il greco del Nuovo Testamento. Gesù parlava in aramaico, e anche apostoli, discepoli, evangelisti avevano l’aramaico come lingua materna (ma forse Luca no) e usavano (con qualche fatica e approssimazione) il greco in quanto lingua veicolare di tutto il Medio Oriente. Tuttavia l’unica fonte certa che possediamo (l’unica fonte autorizzata, per usare un’espressione moderna!) è il greco del Vangelo. Ipotizzare possibili errori e fraintendimenti dei due evangelisti (Mt. 6, 13 = Lc. 11,4) che hanno riportato in greco le parole in aramaico di Gesù è fatica inutile, perché non vi sono elementi sui quali impostare una discussione seria.
c. Il verbo (εἰσενέγκηῃς) è chiaro e non ammette discussioni: εἰσφέρω è ‘portare dentro’ o ‘portare verso’ (‘bring on or upon, introduce’ secondo il Liddell-Scott; ‘llevar, conducir’ secondo il DGE, che cita fra gli altri proprio questo passo). Anche i testi non letterari dell’epoca (papiri) mettono in luce nettamente questo valore. Corretta quindi la traduzione della Vulgata ‘inducas’, sulla quale è basata la traduzione italiana corrente.
d. Sul sostantivo(περισαμόν) si sarebbe potuto lavorare con più frutto: περισαμός vale ‘prova’; la traduzione della Vulgata (temptatio) è corretta, ma nella tradizione italiana sulla parola ‘tentazione’ si sono sovrapposte delle incrostazioni moralistiche che hanno allontanato la parola dal suo valore primitivo, abbastanza chiaro e circostanziato: temptatio è ‘prova, esperimento’, anche in senso fisico (‘attacco di una malattia’). In sostanza ‘inducas in temptationem’ è ‘introdurci alla prova, metterci alla prova’, che, se proprio si voleva cambiare, sarebbe stato cambiamento molto più agevole.

Infine, oltre all’intervento di mons. Bux e del prof. Mareno Morani, è veramente molto interessante, e direi chiaramente espressa, anche la spiegazione data da padre Giuseppe Barzaghi, OP, sacerdote domenicano (Bologna 1988). Dottore in Filosofia (Università Cattolica di Milano, dove ha avuto come maestri G. Bontadini e A. Bausola) e Teologia (Pontificia Università San Tommaso d’Aquino in Roma). Docente di filosofia teoretica presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di teologia fondamentale e dogmatica presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna.

Per vedere il video, consigliato, cliccate sull’immagine:

Foto: padre Giuseppe Barzaghi, OP

L’articolo A proposito del “non ci indurre in tentazione” del Padre nostro proviene da Il blog di Sabino Paciolla.

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Patrizio Riccihttps://www.vietatoparlare.it
Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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