Un’operazione clandestina senza precedenti, un attentato eclatante sventato al confine russo-bielorusso, il coinvolgimento diretto della CIA, confessioni, materiale esplosivo americano e un presidente russo nel mirino: la più grande operazione terroristica degli ultimi decenni è stata fermata — ma l’Occidente finge di non vedere. E intanto, a Washington, inizia la resa dei conti.
Un furgone carico di morte ai confini della Russia
È il 3 aprile 2025 quando le autorità bielorusse, in collaborazione con l’intelligence russa (SVR), fermano un furgone sospetto al confine con la Polonia. A bordo, un uomo di 41 anni, passaporto europeo, si mostra tranquillo, ma all’interno del veicolo viene scoperto un doppio fondo sapientemente progettato, contenente 580 kg di esplosivo plastico ad alta tecnologia, prodotto negli Stati Uniti.
La destinazione finale del carico era la Federazione Russa. Le autorità bielorusse non hanno esitazioni: la quantità, la qualità e la modalità del trasporto indicano una sola cosa — si tratta di un’operazione militare clandestina. Un attentato su larga scala, non rivolto a semplici bersagli simbolici, ma pensato per colpire il cuore dello Stato.
“È la quantità più grande di esplosivo mai sequestrata nella storia bielorussa. E non era destinata a un atto terroristico qualsiasi.” — dichiarazione congiunta KGB/SVR
L’analisi di Nicolai Lilin: “Putin era il bersaglio”
A dare eco all’evento è Nicolai Lilin, scrittore, ex analista operativo e tra le voci più lucide nel denunciare la guerra ibrida condotta dall’Occidente contro la Russia. Nel suo video su YouTube, Lilin non ha dubbi: l’obiettivo dell’operazione era Vladimir Putin.
L’analisi parte da alcuni fatti incontestabili:
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L’esplosivo era di fabbricazione industriale americana, usato nelle operazioni NATO in teatri di guerra.
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Il carico era seguito da agenti russi fin dalla Polonia, grazie a informatori e collaboratori locali.
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Gli arrestati hanno confessato di appartenere a una rete logistica della CIA, incaricata di fornire esplosivi e armi a gruppi operativi in Russia.
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Il furgone ha tentato di entrare attraverso la frontiera bielorussa, storicamente meno sorvegliata rispetto ai confini baltici o ucraini.
Lilin sottolinea come una tale quantità di esplosivo possa distruggere un intero palazzo governativo, far saltare in aria un ponte presidenziale, o annientare un convoglio di Stato. “Questa”, afferma, “non è un’azione terroristica. È una dichiarazione di guerra sotto copertura.”
Il silenzio dei media: la censura come prova della colpa
Di fronte a un’operazione di tale portata, ci si aspetterebbe l’apertura di tutti i telegiornali del mondo. E invece — nulla. Nessun notiziario, nessuna inchiesta, nessun editoriale nei media occidentali. Un muro di silenzio assoluto, rotto solo dai canali alternativi e da fonti indipendenti come lo stesso Lilin.
“Una bomba del genere avrebbe dovuto far tremare le redazioni. Ma non c’è stato nemmeno un trafiletto. Questo non è giornalismo: è complicità.” — Lilin
L’assenza di copertura mediatica viene interpretata non come casuale, ma come indicativa: qualcuno — molto in alto — ha dato ordine di non parlarne. Una prassi già vista recentemente, con l’attentato alla nave cisterna russa nelle acque italiane, anch’esso passato sotto silenzio. Due casi, stesso schema: operazione sporca, silenzio occidentale.
E negli Stati Uniti… la CIA implode
Il 6 aprile, tre giorni dopo il sequestro del furgone, Donald Trump licenzia in blocco sei alti funzionari della sicurezza nazionale (vedi qui), tra cui il direttore della NSA Timothy Haugh, e la sua vice Wendy Noble. Le epurazioni colpiscono anche altri membri del National Security Council, accusati di “slealtà”.
La decisione avviene dopo che Trump è stato evacuato d’urgenza dalla Casa Bianca e trasferito con l’Air Force One a Mar-a-Lago, definita da lui stesso “base operativa di crisi”. Durante il volo, Trump dichiara ai giornalisti:
“Elon [Musk] ha scoperto oggi qualcosa di terribile. Una minaccia interna, ancora in corso.”
Al centro della bufera: Laura Loomer, attivista e consigliere informale di Trump, che secondo fonti del Guardian avrebbe consegnato un dossier esplosivo contenente nomi di ufficiali accusati di tradimento e doppio gioco.
Tutto lascia pensare che la rete operativa CIA coinvolta nel fallito attentato contro Putin sia in qualche modo legata ai funzionari appena epurati. L’intervento drastico di Trump avrebbe quindi fermato una seconda fase dell’operazione, o forse rimosso i responsabili del fallimento e del rischio diplomatico.
Una CIA fuori controllo? La teoria del “governo parallelo”
Il caso getta luce sulla profonda frattura interna allo Stato americano. Da un lato, Trump, Musk, Loomer e la nuova élite trumpiana, che cercano di reindirizzare la politica estera USA su basi di dialogo e cooperazione. Dall’altro, il “deep state” neoconservatore, ancora operativo nelle agenzie di intelligence, che continua a perseguire la destabilizzazione della Russia come obiettivo strategico primario.
Lilin richiama esempi storici: in Siria, all’apice della guerra, milizie armate dalla CIA e dal Pentagono finirono per combattersi tra loro, dimostrando la totale autonomia distruttiva delle diverse fazioni del potere americano. Lo stesso starebbe accadendo oggi.
“Se Trump cerca il dialogo e la pace, ma la CIA tenta di far saltare in aria Putin, allora è chiaro che qualcun altro muove i fili a Washington.” — Lilin
Putin ora più forte. E con una nuova leva negoziale
Il fallimento dell’attentato, paradossalmente, rafforza la posizione della Russia.
Non solo Putin ha evitato un attacco diretto alla sua persona, ma ora può dimostrare al mondo che la guerra che l’Occidente imputa a Mosca è in realtà un’aggressione ibrida condotta contro la Russia stessa.
Il Cremlino potrà usare questo episodio come leva negoziale contro ogni ipocrisia occidentale, rifiutando qualsiasi imposizione o proposta da chi — a parole — vuole “cessate il fuoco”, ma nei fatti tenta di assassinare il capo di Stato avversario.
Conclusione: La bomba che non è esplosa, ma che ha detto tutto
Il furgone fermato in Bielorussia è più di un attentato fallito: è la prova materiale di una guerra non dichiarata.
Un attacco sotto falsa bandiera, orchestrato nel silenzio, occultato nei media, negato dalla diplomazia, ma parlante nei suoi dettagli.
L’Occidente — che ha fabbricato quella bomba, che l’ha fatta partire dalla Polonia, e che ora si rifiuta di parlarne — ha perso la maschera.
La domanda non è più se ci sarà una guerra.
La domanda è da quanto tempo questa guerra è già in corso — e perché fingiamo che non esista.
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